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il cardinale Carlo Maria Martini

Trento, 10 settembre 2012
Carlo Maria Martini, profeta del dialogo
Il ricordo di Marco Boato
da l’Adige di lunedì 10 settembre 2012

«Io ritengo che ciascuno di noi abbia in sé un non credente e un credente, che si parlano dentro, che si interrogano a vicenda»: queste parole, così semplici e così autentiche, del card. Carlo Maria Martini mi sembrano esprimere al meglio il perché quest’uomo, questo padre gesuita e biblista, questo arcivescovo abbia saputo essere riconosciuto come un cristiano del nostro tempo e un uomo del dialogo da tante persone di fede – delle più diverse fedi religiose – e da tanti altri che sono alla ricerca del vero e del giusto senza avere un riferimento religioso.

L’immagine di questa sua testimonianza cristiana sempre alla ricerca di se stesso e dell’altro, nella ricerca di Dio, era pienamente riflessa anche nella composizione dei partecipanti al suo funerale di lunedì 3 settembre nel duomo di Milano e nella piazza antistante. Accanto a cardinali, vescovi, sacerdoti e laici della comunità ecclesiale, c’erano i rabbini della comunità ebraica, gli iman della comunità musulmana, i rappresentanti della chiesa ortodossa, i pastori evangelici della comunità protestante, i buddisti, ma anche molte persone che erano andate a rendergli l’estremo riconoscimento pur non appartenendo a nessuna confessione religiosa: persone che rendevano omaggio alla sua figura di vescovo e al suo insegnamento evangelico pur non essendo credenti o essendo semplicemente «pensanti» (era un’espressione a lui cara) delle sorti dell’umanità e del proprio destino individuale.

Eppure, nella sua lunga vita, ma soprattutto nei suoi 22 anni di servizio episcopale nella diocesi di Milano (dal 10 febbraio 1980 al 29 settembre 2002), come del resto sempre accade ai profeti, Carlo Maria Martini è stato anche contrastato apertamente sul piano politico (la Lega era arrivata a chiederne le dimissioni) e disconosciuto nel suo magistero ecclesiale. Anche nei giorni scorsi, subito dopo la sua morte, avvenuta alle 16 di venerdì 31 agosto, in alcuni giornali sono subito apparsi articoli velenosi, che hanno cercato di sminuirne la figura pastorale, di ridimensionarne l’insegnamento teologico e biblico e di ricondurlo forzatamente nelle categorie asfittiche degli schieramenti politici italiani.

Anche sul piano ecclesiale Martini non ha avuto vita facile. In modo un po’ sfumato, ma abbastanza trasparente, il 4 settembre sul «Corriere della sera» (il giornale a cui Martini ha collaborato per molti anni in un dialogo settimanale con i lettori), il presidente di Comunione e liberazione, Juliàn Carròn, ha scritto: «Ci rincresce e ci addolora se non abbiamo trovato sempre il modo più adeguato di collaborare alla sua ardua missione e se possiamo aver dato pretesto per interpretazioni equivoche del nostro rapporto con lui, a cominciare da me stesso». È una testimonianza veritiera, ma non riesce a cancellare parole riservate (destinate al Papa, tramite l’allora nunzio in Italia e oggi cardinale Giuseppe Bertello) assai più dirompenti, scritte molto recentemente, nel marzo 2011, quando erano in corso le consultazioni del Vaticano per individuare il successore del card. Tettamanzi a Milano.

Aveva rivendicato Carròn «l’esigenza e l’urgenza di una scelta di discontinuità significativa rispetto alla impostazione degli ultimi trent’anni», accomunando quindi tutti i 22 anni di Martini e i 9 del successore Tettamanzi in un giudizio drasticamente negativo: «L’insegnamento teologico per i futuri chierici e per i laici, sia pur con lodevoli eccezioni, si discosta in molti punti dalla tradizione e dal magistero, soprattutto nelle scienze bibliche e nella teologia sistematica. Viene spesso teorizzata una sorta di “magistero alternativo” a Roma e al Santo Padre, che rischia di diventare ormai una caratteristica consolidata della “ambrosianità” contemporanea». La lettera è molto più lunga e arriva poi ad accusare la curia milanese, con Martini prima e Tettamanzi poi, di «neocollateralismo» verso una sola parte politica, concludendo: «Occorre una personalità di grande profilo di fede, di esperienza umana e di governo, in grado di inaugurare realmente e decisamente un nuovo corso». Dunque Martini (e con lui Tettamanzi, che gli è succeduto) non era «una personalità di grande profilo di fede, di esperienza umana e di governo» ed era necessario «un nuovo corso»… Si può immaginare come Martini, nella fase finale della sua malattia, e Tettamanzi, appena dimessosi per motivi di età, abbiano appreso con quali motivazioni veniva segretamente «consigliato» il Papa per individuare il loro successore.

Ecco invece lo stile di Martini, in uno dei suoi ultimi scritti (che uscirà il prossimo 12 settembre nelle librerie): «Quando si cammina “insieme” nello Spirito ci si accorge a un certo punto che i cammini non si incrociano in maniera disordinata e imprevedibile, come per le vie di una grande città, ma che in qualche modo tutti stanno andando verso una direzione comune.

Infatti “camminare insieme” significa che non abbiamo ancora raggiunto la meta ultima: c’è un mistero al di là di tutti i cammini a cui cerchiamo di avvicinarci».

Su di lui e sulla sua fedeltà alla Parola di Dio, in questi giorni, hanno testimoniato in modo autentico personalità ecclesiali come il card. Gianfranco Ravasi, che ne ha raccolto l’insegnamento della «Cattedra dei non credenti» a Milano con la promozione del «Cortile dei Gentili» a Roma, all’insegna del dialogo tra credenti e non credenti, e il teologo e vescovo di Chieti Bruno Forte: «Libertà interiore, ascolto dell’altro, ascolto di Dio: queste tre componenti le ho avvertite presenti e fuse nel cardinale in modo esemplare».

Il teologo Vito Mancuso, suo allievo (e anche lui spesso sottoposto a critiche pesanti e ingenerose) ha affermato che Martini «ha rappresentato uno dei frutti più belli del Concilio Vaticano II e di quella stagione che credeva nel rinnovamento della Chiesa in autentica fedeltà al Vangelo di Cristo, senza più nessun compromesso con il potere».

E poiché tra poche settimane saranno celebrati i 50 anni dall’apertura del Vaticano II (11 ottobre 1962) ad opera di Giovanni XXIII, ecco come ne parlava in una intervista autobiografica lo stesso Martini, mentre aveva scelto di vivere gli ultimi anni a Gerusalemme (dal 2002 al 2007): «Il Concilio fu un momento straordinario, per me personalmente e per tanti, forse quello più bello della mia vita, quello in cui si poteva ripensare, rilanciare e riproporre, in cui si sentiva vibrare una scioltezza, una libertà di parola, una capacità di penetrazione nuova». E ancora: «In tanti di noi c’era davvero un desiderio di maggiore autenticità, verità, povertà, umiltà nella Chiesa: via gli onori, via tutte le pomposità, via tutti gli orpelli».

Si comprende allora perché lo storico Alberto Melloni abbia scritto dello «stile-Martini, così intriso di quella forza biblica che è l’ascolto» e abbia aggiunto: «Martini è stato anche bersaglio di cattolicissimi attacchi per questo». Ma ha anche ricordato come il 7 ottobre 1999, davanti al Sinodo dei vescovi, avesse evocato l’esigenza di un «confronto collegiale e autorevole tra tutti i vescovi su alcuni temi nodali», indicando così in modo esplicito la necessità di arrivare a un nuovo Concilio. E Melloni ha così concluso: «Ma, quando il Concilio verrà, egli ne sarà detto profeta».

Di questo spirito di profezia è intessuta l’ultima intervista, data l’8 agosto, ma intenzionalmente pubblicata solo dopo la sua morte, meno di un mese dopo. Al gesuita Georg Sporschill che gli chiede «Che strumenti consiglia contro la stanchezza della Chiesa?», il card. Martini risponde con un filo di voce: «Il primo è la conversione: la Chiesa deve riconoscere i propri errori e deve percorrere un cammino radicale di cambiamento, cominciando dal Papa e dai vescovi». E alla fine conclude, quasi in forma di testamento: «Solo l’amore vince la stanchezza. Dio è Amore. Io ho ancora una domanda per te: che cosa puoi fare tu per la Chiesa?».

Quale fosse la sua concezione dell’episcopato, anche sotto il profilo umano, lo aveva scritto con semplicità in un libro pubblicato nel 2011: «Le caratteristiche che pongono il vescovo a suo agio nel mondo contemporaneo sono le seguenti: prima di tutto l’integrità. Poi la lealtà e la virtù della pazienza e della misericordia. La buona educazione, la dolcezza del tratto, la fermezza paterna, l’amore per il bello e le sue forme. Il vescovo deve essere, ancora, un uomo umile, che vince le durezze con la propria dolcezza, che sa essere discreto, che sa ridere di sé e delle proprie fragilità. Che sa rimettersi in discussione e riconoscere i propri errori senza troppe autogiustificazioni. Il vescovo deve essere anzitutto un uomo vero».

Credo si faccia un errore, rispetto alla complessità e grandiosità della sua figura ecclesiale, anche sul piano storico e umano, definire Martini come un «progressista», usando maldestramente le categorie della politica. In questi giorni lo hanno fatto sia alcuni di coloro che lo hanno elogiato, sia, e ancor più, altri che per questo lo hanno attaccato anche «post-mortem», ignorando l’autenticità della sua testimonianza profetica, la grandezza della sua missione pastorale, i suoi profondi libri di esegesi biblica e le sue moltissime pubblicazioni rivolte non solo ai cristiani, ma – usando un’espressione giovannea – «a tutti gli uomini di buona volontà».

Anche in questo, evangelicamente, Carlo Maria Martini è stato «segno di contraddizione», e continuerà a esserlo anche ora che la sua vita, straordinariamente ricca di umanità e di spiritualità, si è conclusa per sempre.

 

  Marco Boato

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